domenica 3 dicembre 2023

[IRAN] La lettera del Nobel dal carcere «Perché il mondo resta impassibile?»


Il 10 dicembre non sarà a Oslo, a ricevere il premio Nobel per la pace. Nella storia, era successo solo altre tre volte che il vincitore fosse impossibilitato perché in carcere. Dopo quella del tedesco Von Ossietzky (1935), della birmana Aung San Suu Kyi (1991) e del cinese Liu Xiaobo (2010), sarà la sedia vuota dell’iraniana Narges Mohammadi, anche lei in prigione come i suoi tre predecessori, a segnare la celebrazione. « Non potrà uscire dal carcere di Evin», conferma dall’Italia il movimento Donna Vita Libertà, nato sulla scia dello sdegno per la morte, nel settembre 2022, della giovane Mahsa Amina, arrestata e picchiata perché portava male il velo. Narges non potrà volare in Norvegia non solo perché il regime degli ayatollah, a dispetto dell’invito della presidente del Comitato di Oslo, Berit Reiss Andersen, a « prendere la giusta decisione», non sembra avere la minima intenzione di rilasciarla, ma anche perché le sue condizioni di salute sono precarie. 

Narges Mohammadi, 51 anni, giornalista, scrittrice, attivista per i diritti umani, arrestata 13 volte e condannata 5 per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate a causa del suo impegno per la libertà del popolo iraniano e in particolare delle donne, soffre di gravi patologie cardiache. Nei giorni scorsi le autorità, dopo ripetuti dinieghi perché la prigioniera rifiutava di coprirsi la testa con il velo, l’hanno trasportata in ospedale, ma dopo alcuni veloci esami l’hanno riportata in carcere. « È in pericolo di vita, la sua stessa esistenza è sotto il ricatto di un regime dispotico che le vieta cure adeguate», dice ad Avvenire Parisa Nazari, attivista del Movimento italoiraniano Donna Vita Libertà. 
Alla vigilia della consegna del premio Nobel per la pace, Narges è riuscita comunque a far uscire una sua lettera dal carcere di Evin, a Teheran, che Avvenire ha potuto leggere, in cui si dichiara « profondamente scioccata per il modo in cui il mondo assiste impassibile al massacro e alle esecuzioni del popolo iraniano». La stretta del regime degli ayatollah è impressionante: nei giorni scorsi è stato impiccato l’ottavo manifestante del movimento Donna, Vita, Libertà, Milad Zohrehvand; 24 ore dopo è toccato a un ragazzo di 17 anni. « La macchina delle esecuzioni – scrive Narges – ha accelerato in tutto il Paese (…) È la guerra del regime contro il popolo iraniano oppresso, indifeso e in rivolta».
L’attivista in carcere esprime «grande dolore » per il silenzio del mondo davanti a questa strage: «Che tragica morte è quella nell’oscurità della notte». E poi dalla cella di Evin alza il suo grido: «Chiedo all’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani di intraprendere un’azione urgente e decisiva in nome dell’umanità per fermare le esecuzioni in Iran ».

Un appello che viene rilanciato dalle attiviste iraniane che nel nostro Paese portano avanti il movimento Donna Vita Libertà: al governo italiano e alla Commissione Europea chiedono di fare pressioni sul regime degli ayatollah perché fermino il boia e perché rilascino la premio Nobel. L‘appello è stato già sottoscritto da Maurizio Landini (Cgil), Elly Schlein (Pd) oltre che dalla Casa internazionale delle Donne e da Amnesty. « Il rifiuto delle autorità iraniane di consentire a Narges di ritirare il premio – dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia - e l’ostinazione con cui la tengono in carcere nonostante le precarie condizioni di salute dovrebbero suscitare scandalo e indignazione a livello mondiale. Ogni giorno in più in carcere è un insulto ai diritti umani e un pericolo per la sua vita».
Su questo fronte si registra una ampia mobilitazione: a quella ormai “storica” di Amnesty, si è aggiunta una petizione di Pen International, l’associazione degli scrittori che annovera la Premio Nobel come membro onorario. Decine di intellettuali – da Salman Rushdie a Arundhati Roy - hanno firmato l’appello perché Teheran consenta alla donna di riunirsi al marito e ai suoi due figli, che non vede da 8 anni, e di volare a Oslo il 10 dicembre «dove il suo lavoro giustamente sarà onorato ». 
Ma le speranze sono davvero poche.

Antonella Mariani
Avvenire 03.12.23 


venerdì 3 novembre 2023

All'Iran la presidenza del Forum sociale del Consiglio dei Diritti Umani ONU

Giovedì è toccato all’Iran presiedere il Forum sociale 2023 del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (Unhrc) che si svolge a Ginevra fino al 3 novembre. La scelta di nominare Ali Bahreini, ambasciatore della Repubblica islamica e rappresentante permanente presso le Nazioni Unite, non è passata inosservata e ha scatenato una campagna di protesta internazionale da parte degli attivisti per i diritti umani ma anche da parte del mondo politico. Il contesto internazionale in seguito all’attacco del 7 ottobre di Hamas a Israele aggiunge benzina sul fuoco.
Rispondendo a un’interrogazione dell’Europarlamentare della Lega e del gruppo Identità e Democrazia, Gianna Gancia, che parlava “di uno schiaffo in faccia” data la situazione dei diritti umani della maggior parte degli iraniani, in particolare delle donne, “e le ripetute esecuzioni a seguito delle proteste in corso nel paese”, l’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri, Josep Borrell si era difeso sottolineando a fine luglio che la nomina di Bahreini era legata ad una questione di rotazione regionale “in linea con le procedure stabilite delle Nazioni Unite” e ribadendo che l’Ue ha intrapreso “azioni diplomatiche per condannare fermamente le violazioni dei diritti umani da parte delle autorità iraniane e la repressione dei manifestanti da parte delle autorità iraniane all’indomani della morte di Mahsa Amini in custodia della polizia”.

L’Ong Un Watch, l”organizzazione non governativa con sede a Ginevra la cui missione dichiarata è ‘monitorare le prestazioni delle Nazioni Unite sulla base della propria Carta’, contesta la linea di Borrell spiegando che “il gruppo asiatico, a cui appartiene l’Iran, ha ricoperto la posizione quattro volte negli ultimi sei anni, negando rotazioni a diversi altri gruppi regionali”. La nomina dell’Iran, sostiene il direttore esecutivo dell’Ong, Hillel Neuer, “può essere annullata da una riunione speciale del Consiglio prima di giovedì”. La campagna di protesta di Un Watch è accompagnata da una petizione globale che è stata firmata da oltre 90 mila persone che chiedono all’Onu di recovare la presidenza iraniana del forum sociale.
“Chiediamo al signor Borrell di agire. È tempo che tutte le democrazie alle Nazioni Unite smettano di legittimare regimi assassini, in violazione dei principi fondanti dell’organismo mondiale, e inizino invece a chiamare i responsabili a risponderne”, spiega ancora Neuer. “Il regime omicida di Teheran è responsabile di un’impennata delle esecuzioni, applicate in modo sproporzionato alle minoranze, e dell’oppressione di donne e ragazze. La recente morte della sedicenne Armita Geravand, dopo essere stata aggredita in metropolitana dalla polizia morale iraniana per non aver indossato l’hijab obbligatorio, ci ricorda che si tratta di un regime crudele che non appartiene a nessun organismo delle Nazioni Unite per i diritti umani, figuriamoci come presidente”.
Per Neuer “è inimmaginabile che giovedì al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il rappresentante dell’ayatollah Khamenei terrà il martelletto, al fianco dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volcker Turk”. “Questa scelta invia il messaggio sbagliato al momento sbagliato, consentendo alla Repubblica islamica dell’Iran – che sponsorizza le atrocità di Hamas – di pavoneggiarsi sulla scena internazionale come un attore rispettato e influente”.

Il Centro per i Diritti Umani in Iran (Chri) a maggio aveva accolto la nomina di Bahreini considerandola un “oltraggio” e chiedendo l’immediato ritiro. “La nomina di un funzionario iraniano a presiedere un organo dell’Unhrc, mentre il Consiglio sta indagando sul massacro di centinaia di manifestanti pacifici da parte della Repubblica islamica, riflette una scioccante cecità etica”, aveva affermato Hadi Ghaemi, direttore del Chri.
Il Social Forum 2023 dell’Unhrc si concentrerà sul contributo della scienza, della tecnologia e dell’innovazione alla promozione dei diritti umani, anche nel contesto della ripresa post-pandemia. “Date le gravi violazioni dei diritti umani della Repubblica islamica e la sua gestione catastrofica e politicizzata della pandemia di Covid-19, in cui il suo rifiuto di importare vaccini occidentali è costato centinaia di migliaia di vite, è inspiegabile che il presidente di turno dell’Unhrc, l’ambasciatore ceco Vaclav Balek scelga l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite”, aveva sottolineato il Chri.
Anche l’europarlamente Gancia aveva evidenziato “la gestione catastrofica e politicizzata della pandemia di Covid-19” da parte dell’Iran, “quando il suo rifiuto di importare vaccini occidentali è costato centinaia di migliaia di vite”. (Adnkronos)

giovedì 5 ottobre 2023

[IRAN] Ancora polizia morale

Ridotta in fin da vita dalla polizia morale iraniana perché non indossava il velo. 
Sta facendo il giro del mondo il caso di Armita Garawand, una giovane di origini curde di 16 anni, che sarebbe stata attaccata dalle forze dell'ordine del regime mentre si trovava in metropolitana a Teheran senza indossare l'hijab. Il caso, denunciato dalle organizzazioni di resistenza iraniane e diffuso dall'organizzazione norvegese per i diritti umani Hengaw, ricorda molto il caso di Mahsa Amini, la giovane donna che lo scorso anno ha perso la vita dopo essere stata arrestata perché non indossava correttamente il velo.
Armita proviene dalla città di Kermanshah, nell'Iran occidentale popolato prevalentemente da curdi, ma attualmente è residente a Teheran. Secondo Hengaw, attenta alle questioni del popolo curdo, la giovane è stata vittima di "gravi abusi fisici" da parte della polizia morale nella metropolitana. L'incidente sarebbe stato causato da una violazione del rigido codice di abbigliamento islamico, che questa estate è stato rafforzato con pene più severe. Sempre secondo l'organizzazione norvegese, la studentessa liceale si trova attualmente in coma e sotto sorveglianza in un ospedale militare. I media locali sostengono invece che la ragazza è stata portata in ospedale dopo aver perso conoscenza in metropolitana a causa della "pressione bassa" e per "aver sbattuto la testa contro una sbarra di metallo". I suoi amici l'hanno fatta scendere dal treno e hanno chiamato i servizi di emergenza.


I media statali hanno diffuso un breve video del servizio di sorveglianza della stazione della metropolitana che mostra un gruppo di donne che estraggono da un vagone della metropolitana una persona priva di sensi. Secondo le accuse, non si tratterebbe di amici della giovane, ma di poliziotte. Secondo due fonti, riportare dal sito IranWire, la giovane donna è ricoverata ora sotto stretta sicurezza presso l'ospedale Fajr di Teheran, è in coma e "al momento non sono consentite visite alla vittima, nemmeno da parte della sua famiglia". A seguito dell'incidente la giornalista Maryam Lotfi, del quotidiano Shargh, si è recata presso l'ospedale nel tentativo di visitare la ragazza, ma è stata immediatamente arrestata, per essere in seguito rilasciata. Sui social media si è scatenata un'ampia discussione su un presunto video dell'incidente che secondo alcuni mostra l'adolescente, con gli amici e apparentemente senza velo, mentre viene spinta nella metropolitana da agenti di polizia donne. Masood Dorosti, amministratore delegato della metropolitana di Teheran, ha negato che ci sia stato "qualsiasi conflitto verbale o fisico" tra la studentessa e "i passeggeri o i dirigenti della metropolitana". "Alcune voci su uno scontro con gli agenti della metropolitana... non sono vere e le riprese delle telecamere a circuito chiuso smentiscono questa affermazione", ha detto Dorosti all'agenzia di stampa statale Irna. Siti di opposizione al regime accusano le autorità di stare insabbiando il caso per evitare una nuova ondata di proteste, dopo quelle esplose nel paese dopo la morte di Mahsa Amini, avvenuta mentre era in custodia presso la polizia morale di Teheran.
(Today.it)

sabato 3 giugno 2023

Siamo tante e non abbiamo paura, la dittatura morde ma ha le ore contate

Se siamo vive? Se, pur non andando più in piazza tutti i giorni, noi iraniane e i compagni che resistono al nostro fianco siamo ancora vivi? Certo che lo siamo, la rivoluzione ha cambiato forma ma continua. 

L'ultima volta che l'ho toccato con mano è stato mercoledì sera, saranno state le dieci, l'aria era calda, appiccicosa. Dovevo prendere la metropolitana che da Teheran mi riportava a casa, a Karaj, ma ero in ritardo e l'ho persa. Così sono rimasta tre quarti d'ora ad aspettare il treno successivo. E il futuro era lì, sulla banchina. Gruppi colorati di giovani cantavano allegri, tante ragazze come me non indossavano l'hijab, non si respirava paura né tensione, nonostante la repressione continui a decimarci. I mercenari della Repubblica islamica, con il solito sguardo torvo e la mano sullo sfollagente, sorvegliavano la scena a distanza, senza intervenire, quasi rassegnati. E' la nostra nuova dimensione, la messa a terra di "Donna, vita, libertà", la rivoluzione che è uscita dalle piazze e ha invaso il quotidiano. Non saprei quasi più dire bene come fosse fino a un anno fa, prima dell'assassinio di Mahsa Amini e dei giorni della rabbia. Se parlo con le mie amiche, nessuna oggi pensa più che sia possibile tornare indietro, che il regime riesca a rimettere l'hijab a tutte noi, imbavagliandoci di nuovo come se nulla fosse successo. Siamo tante, troppe, siamo come gli uomini e non abbiamo paura di quelli di loro che anziché sostenerci ci minacciano. 

Se è troppo presto per cantare vittoria? Lo è. Purtroppo lo è. Il regime ha capito di avere le ore contate e sta rispondendo con l'artiglieria pesante, tanto su fronte esterno che su quello interno. Da una parte ha intrecciato alleanze vecchie e nuove con i peggiori dittatori, a cominciare dalla Cina e dall'Arabia Saudita, per fare fronte comune contro quell'occidente al cui sistema valoriale ci ispiriamo noi, i ribelli. Dall'altra stringe la morsa sugli attivisti. Ci sono arresti ogni giorno, e ci sono condanne a morte. Il caso delle due giornaliste che per prime hanno raccontato la fine di Mahsa Amini, Niloofar Hamedi e Elaheh Mohammadi, è in mano al Tribunale Rivoluzionario e questa è una forzatura giuridica fuori misura perfino per la distorta legislazione della Repubblica islamica che, di norma, affida le procedure contro la stampa ai magistrati ordinari e non chiama a rispondere i cronisti bensì i direttori o gli editori. Niloofar e Elaheh sono simboli, per questo si trovano in stato di detenzione temporanea da quasi otto mesi laddove sarebbero previste al massimo 48 ore. E poi ci sono tutte le altre, violate, accecate, umiliate pubblicamente. E tutti gli altri. Quelli ammazzati, come Majid Kazemi, Saleh Mirhashemi e Saeed Yaghoubi, i tre giovani attivisti impiccati due settimane fa a Isfahan perché giudicati colpevoli di "guerra contro Dio", e prima di loro Mohammad Mehdi Karami, Seyed Mohammad, Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard. E ci sono quelli che aspettano il loro turno sulla forca, come Mohammad Ghobadloo. Ho visto in questi mesi scene che non avrei immaginato possibili, coraggio, violenza, solidarietà, incoscienza, resilienza e poi, nonostante il sangue, noi che andavamo avanti senza cadere e toglievamo l'hijab e continuavamo ad andare avanti. Avevo undici anni nel 2009 e, sebbene bambina, ricordo intorno a me l'entusiasmo, il sospetto, il terrore, la depressione. Ci ho ripensato tanto quando abbiamo cominciato a protestare, alla fine dello scorso settembre, mi chiedevo quanto ci sarebbe voluto perché l'onda ci travolgesse, lo slogan "Donna, vita, libertà" si strozzasse in gola e provassimo quello che avevano provato le nostre sorelle maggiori. L'abbiamo provato ma siamo qui. Da quando non indosso più l'hijab in strada ad ogni passo che faccio avverto lo sguardo della polizia sulle spalle ma non mi volto. 

*Mahin, 

nome di fantasia di una storia vera raccolta da Francesca Paci su LaStampa

martedì 9 maggio 2023

Patrick Zaki. Nuovo, ennesimo rinvio

«Decima udienza, non perdiamo la speranza», aveva scritto questa mattina in un post su Facebook Patrick Zaki auspicando una «fine del continuo stato di attesa. Devo discutere la mia tesi di laurea all’università di Bologna a metà luglio, e quello è il giorno più importante per ogni studente di master in generale, e per me in particolare».
«È difficile per me completare i miei studi; ma con l'aiuto dell'università e della professoressa, sono riuscito a finire la maggior parte degli esami del master», ha aggiunto lo studente egiziano accusato di aver pubblicato notizie false. «Spero che quando arriva giugno sarò a Bologna, tra i miei colleghi, a festeggiare la fine della mia tesi magistrale come una persona normale».

Nonostante la scarcerazione avvenuta l’8 dicembre del 2021 dopo quasi due anni di detenzione, Patrick Zaki rimane imputato «per «diffusione di notizie false e diffusione di terrore tra la popolazione» riguardo a un articolo pubblicato nel 2019 sui cristiani copti in Egitto perseguitati dall’Isis e discriminati da frange della società musulmana. Il processo però è ancora in corso ma ogni volta le udienze vengono rinviate. Una strategia sistemica adottata dal governo egiziano contro detenuti politici, giornalisti e attivisti scomodi al regime.
Il prossimo appuntamento è stato fissato al 18 luglio dopo che nel tribunale di al Mansoura il giudice titolare del processo oggi ha deciso di non presentarsi. A comunicarlo è lo stesso studente egiziano dell’università di Bologna, che è stato rilasciato dal carcere l’8 dicembre del 2021.

«Processo Zaki: stamattina il giudice non si è neanche presentato. Ora Patrick resta in attesa che qualcuno gli dica cosa succederà. Un'ennesima prova del disprezzo per i diritti umani da parte della magistratura egiziana», ha scritto Amnesty International Italia su Twitter.
Sul caso è intervenuto anche il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury: «Il fatto che il giudice neanche si sia presentato, oggi, per la decima udienza del processo è un segno di gradasso disprezzo per i diritti umani da parte della magistratura egiziana. Siamo di fronte a un altro rinvio abnorme di oltre due mesi. Patrick trascorrerà il suo 32º compleanno, il quarto consecutivo, ancora privo della completa libertà. La sua speranza di poter tornare a Bologna, a metà luglio, per prendere finalmente la laurea svanisce anche questa volta. È un accanimento assurdo del quale bisogna che le istituzioni italiane chiedano conto al governo del Cairo».